Empatia e di più: personalità del terapeuta
La relazione terapeutica che si sviluppa con il paziente è ogni volta un’occasione di confronto, di saper mantenere i confini tra il proprio sentire e quello del paziente, un immedesimarsi nell’altro senza fondersi.
L’empatia, il saper sentire, di cui tanto si è sempre parlato, non è sufficiente.
Cade un mito dell’essere un buon terapeuta? No, ma un approfondimento della figura del terapeuta può chiarire e dare significato a paure recondite o ipertrofie del ruolo.
Anzitutto la relazione tra terapeuta e paziente, con tutte le sue implicazioni, è centrale. Così come il paziente porta in terapia il suo Sé complessivo così il terapeuta svolge il suo compito/ruolo con tutti suoi aspetti, fisico, psichico, emotivo.
Lo svolgimento del ruolo di terapeuta potrebbe avere il significato recondito di colmare desideri e bisogni svariati: desiderio di maternità/paternità, desiderio di prevalere e dominare l’altro, di assumere potere nella relazione, fantasie di onnipotenza e sapienza.
Oppure potrebbe essere per lo stesso terapeuta motivo di preoccupazioni, ansie, dubbi che sconfinano e trovano radici nel proprio vissuto personale.
Questi sono rischi in cui si incorre se non è chiaro il senso del proprio agire: alle richieste del paziente si può scivolare verso risposte automatiche di ruolo se non si ha avuto occasione di fare un lavoro su di sé, non solo sulle proprie consapevolezze, le quali potrebbero essere falsate e mitizzate, ma sui propri Funzionamenti interni.
Un benessere di fondo del terapeuta è, quindi, la base su cui si poggia il buon esito operativo del suo sapere teorico.
Ma passiamo nel dettaglio alle cosiddette caratteristiche di personalità.
Il rispetto del paziente è teoricamente senz’altro contemplato da ogni terapeuta ma il senso di questo rispetto è spesso difficile da collocare nella dimensione reale di quella specifica terapia, con quello specifico paziente.
Qui si innesta una caratteristica da considerare: la pazienza di accettare i tempi di apertura e di cambiamento di quel paziente. Ad esempio i tempi teorici o il discorso della consapevolezza “io ti spiego e tu capisci” decadono come legge causa-effetto. Il fattore consapevolezza non è di per sé un fattore di cambiamento.
Il paziente, infatti, può divenire consapevole ma non riuscire a modificare i suoi disfunzionamenti: ecco perché è necessario lavorare sui Funzionamenti interni del paziente.
Inoltre, io terapeuta devo saper condurre il paziente ad un cambiamento con pazienza, incoraggiamenti e a volte silenzi.
Non sempre il terapeuta deve essere direttivo, ma è sempre guida!
Con modalità diverse, a seconda delle fasi della terapia, egli accompagna dall’inizio alla fine.
Uno psicoterapeuta cioè deve diventare una “presenza” e questo dipende dalla sua personale Consistenza.
Il terapeuta deve saper spingere un po’ il cucciolo/paziente, essere presente, saper lasciare un’impronta nel suo percorso ma senza violare, senza sostituirsi, senza imporre decisioni, aiutandolo nei nodi cruciali di vita che richiedono decisioni che lui spesso non è in grado di prendere. Il terapeuta se ne assume una responsabilità con estrema attenzione e previsione del passo a cui condurrà il suo paziente, con l’amore di un genitore verso il bambino.
“Prendersi cura del proprio piccolino, prenderselo tra le braccia ma metterlo anche a terra al momento giusto per aiutarlo a camminare.”
Questo permetterà un potersi affidare serenamente al terapeuta , un sentirsi preso per mano in un percorso che attraverserà anche momenti dolorosi di rivisitazione di eventi di vita difficili.
Il paziente va portato con decisione, sicurezza, va fermato al momento giusto, va spinto e incoraggiato quando si avverte che è pronto. Bisogna aiutarlo a sperimentarsi, osare, andare un po’ oltre, incoraggiare l’espansione del suo Sé.
Per poter aiutare in questa direzione è necessario che il terapeuta non sia solo empatico verso l’altro ma abbia ben sperimentato egli stesso alcuni suoi Funzionamenti, lo spettro comprende: Contatto, Tenerezza, Prendere e Cambiare l’altro, Percepire bene l’altro, Forza calma, Consistenza, Amare l’altro. E’ anche importante che abbia un suo nucleo di Vitalità sempre disponibile a cui il paziente può attingere e a volte se ne può fare scudo nei suoi momenti più cupi, più depressivi.
E’ necessaria anche la capacità di sdrammatizzare perché spesso i pazienti, ovviamente per il dolore cronicizzato su alcuni personali eventi di vita, si portano dietro un fardello appesantito di sofferenza cristallizzata che va fluidificata con grande rispetto ma che comunque deve essere sciolta e alleggerita.
Bando poi alle ansie del terapeuta/genitore.
“Mettere a terra” il proprio bambino e fargli sperimentare il mondo e anche i piccoli incidenti che ne derivano potrebbero tenerci bloccati in una modalità di iperprotezione e di “faccio io, scelgo io per te”.
Bisogna quindi avere anche coraggio e umiltà per essere buoni terapeuti!
L’eventuale senso di onnipotenza che potrebbe insorgere nel ruolo di terapeuta si interseca, esso stesso, con paure di ogni genere: “sarò in grado di gestire tale situazione, patologia”, “il paziente mi percepisce come competente”, “tale situazione così simile alla mia mi coinvolgerà eccessivamente”?
Allora un aiuto perversamente risolutivo ci può venire da una fantasia, quasi schizofrenica, che taglia la testa al toro “ho studiato, ho il sapere teorico del funzionamento umano, questo mi pone in una condizione di assoluta tranquillità”.
Un ancoraggio teorico e metodologico sono, senz’altro, una valida base di partenza ma l’umiltà a mettersi in discussione, a fare un lavoro su di sé e poi confronti con colleghi sono il continuum tra il “dire e il fare”.