Non si parla mai della morte. Il tabù per eccellenza.
Morte! Questa parola fa tremare da sempre l’umanità, dai più grandi conquistatori al più umile degli umili, chiunque prova un brivido solo a pronunciarla, perché in essa sono racchiusi significati e concetti profondi e senza risposte. Lo stesso Gesù, che si definiva il figlio di Dio, in tutta la sua umanità squarciò un urlo di paura “allontana da me questo calice“.
La morte fa paura, la morte è terrificante, la morte è angosciante. La si allontana anche a ridosso di essa, ad esorcizzare un evento inaccettabile per chiunque. Se l’argomento “morte” si riferisce alla propria dipartita non vogliamo neanche sentirne parlare e se è riferita agli altri non vediamo l’ora di interrompere la discussione, con dovuti scongiuri e gesti scaramantici.
La paura della morte è la paura dell’ignoto. L’idea che tutto finisce e anche di altre inquietudini che ci affliggono dovute all’atto della sepoltura o l’idea di un vuoto cosmico ci porta ansia e stress.
Ma se con un atto di coraggio, invece di scacciare il pensiero come se fosse lebbra, ci apriamo a una riflessione, due possibili, contrapposti scenari si dipanano:
- una strada è l’ipotesi che accogliamo una concezione che tutto finisce, che ci congediamo dalla vita con l’ultimo respiro e con l’ultimo battito quindi si placherebbe ogni affanno e non ci si accorgerebbe più di nulla;
- accostandoci, invece, all’ipotesi che la vita continua in un’altra dimensione non fisica, sarebbe meglio tentare di approfondire durante il cammino terreno cosa ci attende e non sbattere la porta in faccia al Cupo Mietitore con la falce nella mano.
Dalle religioni di ogni tempo come dalle credenze dei popoli antichi l’argomento è stato affrontato, idolatrato, temuto, negato; dalla chiesa cattolica, che dopo una straziante passione ci tranquillizza con un Cristo risorto, dono per tutti noi, riceviamo “vie di uscita“, ma che spesso si rivelano premi di consolazione con cui scendere solo a compromessi.
Purtroppo le maggiori problematiche del mondo moderno derivano da una cosiddetta “ignoranza spirituale”. Gran parte della gente drammatizza il tanto temuto momento appellandosi al classico detto: “Tanto non è mai tornato nessuno a raccontarci cosa c’è di là!“, a dimostrazione che non c’è un “dopo” .
Ma ne siamo così sicuri? Eppure la letteratura pullula di racconti di tunnel di luce, di ritorni da mondi fantastici, incontri con amici e parenti defunti o forme angeliche di vario grado e natura; per non parlare poi delle cosiddette canalizzazioni in cui forme più o meno evolute di entità spirituali danno informazioni sempre più particolareggiate su come funzionano le dimensioni post-mortem.
Allora cosa vogliamo di più? Nonostante tante forme di spiegazioni forniteci non ci fidiamo. Ognuno di noi vorrebbe la prova definitiva. Quella che spesso nessun pensiero o religione può darci, perché ogni lettura, ogni dogma è un riportarci a qualcosa di non tangibile per noi.
Il sogno di ognuno di noi è poter avere un “contatto diretto con la spiritualità”. Chiunque vorrebbe che il proprio Dio lo tranquillizzasse personalmente, con dolcezza e fermezza e magari gli dicesse: “Stai calmo, ci sono Io a guidarti, tutto andrà bene! La morte è solo un passaggio.” Ma il San Tommaso che è in noi non sarà esaudito.
Da millenni si attende una risposta diretta, ma non trovandola ci si affida a sciamani, veggenti e guru di vario tipo e così col tempo si delega l’argomento ad altri, si preferisce non parlare di morte o semplicemente si finge che la morte non esista e così molto più spesso si cade in depressioni, isterismi o patologie psichiche invalidanti e atteggiamenti che scindono l’inseparabile binomio vita/morte.
Forse sarebbe ora di parlarne di più. Fingere che quasi non esista e che non ci toccherà mai non risulta la soluzione ideale.
Immaginiamo e auspichiamo un contatto con l’argomento sin da piccoli, come una materia scolastica. Le dinamiche individuali, psichiche, collettive e societarie si svolgerebbero forse diversamente. Probabilmente ognuno di noi fin da piccolo avrebbe un rispetto e un coraggio verso questo argomento che ci porterebbe a comportamenti più equilibrati e meno stressanti verso il tabù per eccellenza.
E poi, per concludere con una visione di speranza, se la nostra coscienza finisse con la morte del corpo fisico non sarebbe un vero “spreco“? L’idea di una qualche resurrezione, una continuità, una immortalità potrebbe essere segno di un pensiero umile, che si inchina ai propri limiti, non necessariamente atteggiamento di prostrazione e illusione a cui asservirsi per poter sopravvivere al tabù supremo, all’intoccabile, inviolabile paura.